Sono nato nel 1969 in un piccolo paese in provincia di Ferrara, da una famiglia di agricoltori e fornai. Mio nonno possedeva alcuni terreni in cui, soprattutto, si produceva frutta. Iniziai a trascorrere molto tempo nei campi fin da piccolo, fin dall’età di cinque e sei anni. Mi piaceva moltissimo correre sui campi arati, fra i filari dei frutteti, nella vigna, nei campi di grano e granturco. Anche se in modo inconsapevole, in quegli anni, stava entrando in me, si stava sviluppando, la mia sensibilità verso la Natura. Le campagne negli anni settanta, nei pressi di Ferrara, erano veramente belle, intatte, molto fertili. Si viveva il rapporto con la terra con grande rispetto. I campi, per me, rappresentavano il luogo di lavoro dei miei nonni e dei miei genitori, ma, allo stesso tempo, erano luoghi sconfinati, dove imparare ad osservare la meraviglia dei fiori, degli alberi, degli animali. Luoghi dove imparare a guardare i molti, differenti, colori del cielo, dove imparare a vivere il passaggio delle stagioni.
Quando si trattò di decidere, assieme alla mia famiglia, quale scuola avrei dovuto frequentare per le superiori (scuole medie superiori), la scelta ricadde sull’Istituto per Agrotecnici. Un Istituto professionale di Stato situato appena fuori la città di Ferrara. Furono cinque anni di studio interessanti, dove potei conoscere nel dettaglio tutte le colture che quotidianamente vedevo nell’azienda di famiglia. Studiai la frutticoltura, la viticoltura, le colture estensive come i cereali, l’agronomia. Materie che mi appassionavano. Nel frattempo d’estate lavoravo nei campi, per aiutare la mia famiglia.
Mio nonno paterno aveva una gran passione per la viticoltura e per il vino; tanto che nella nostra azienda agricola, piantò negli anni sessanta un ettaro di vigna. Scelse una varietà locale come il trebbiano, ma piantò anche merlot (più popolare nel veneto che nella nostra Emilia) e poi la Barbera. Sì, proprio la Barbera piemontese, quasi che volesse già farmi entrare in contatto, con molto anticipo, con una delle grandi varietà che avrei incontrato dieci anni dopo in Piemonte, durante la mia prima importante esperienza lavorativa. Di cui dirò più avanti.
All’Istituto per Agrotecnici conseguii il diploma nel 1988, presentando all’esame di maturità, viticoltura ed enologia.
L’anno successivo, quindi nel 1989, mi iscrissi alla Facoltà di Agraria di Bologna. Per me fu un grande orgoglio. Nessuno, nella mia famiglia, prima di me, aveva avuto la fortuna di frequentare l’università. Tutti, mi riferisco a mio padre, a mia madre, agli zii ed ai nonni, avevano dovuto dedicarsi al lavoro, senza poter studiare.
Il corso di laurea in Agraria, quando io mi iscrissi a Bologna, aveva una durata di cinque anni, trentasei esami, infine la tesi. Mi occorsero sei anni e mezzo per concludere l’università, ma alla fine ottenni un eccellente risultato, in quanto mi laureai con il massimo dei voti e la lode.
L’università di Bologna mi conferì il diploma di laurea in dottore in Scienze Agrarie. Questo avvenne nel 1996.
Dato che il voto di laurea fu buono, decisi di fare domanda per accedere ad alcune borse di studio, sempre all’Università di Bologna. Ne vinsi due, e scelsi quella offertami dal Cnr di Bologna (Cnr: Consiglio Nazionale delle Ricerche). Lì, trascorsi lunghi mesi nei laboratori, prevalentemente al microscopio. Il laboratorio era in una stanza interrata, la cui finestra principale lasciava intravvedere il marciapiede esterno dell’edificio. Mi stavo occupando di patologia vegetale, di micosi, di batteri, ero sempre rinchiuso in quel piccolo laboratorio.
Fu proprio nei mesi in cui lavorai al Cnr che iniziai a pormi alcune domande sul mio futuro. Era veramente la vita del ricercatore quella che volevo fare? Era la carriere universitaria, quella per cui forse a cinquant’anni avrei potuto diventare un ricercatore di ruolo, quella che mi affascinava? Era una vita chiusa in un laboratorio, quella per me?
Le risposte arrivarono presto e con convinzione: certamente No. Se dovevo rendere la mia vita bella, audace, interessante, allora avrei dovuto seguire il mio istinto, il mio sogno; ovvero mettere a frutto gli studi di agronomo e lavorare in una grande azienda vinicola, in una grande cantina, ovunque essa si trovasse.
Nel 1997, consegui il diploma di sommelier dall’AIS (Associazione Italiana dei Sommelier). Fra i libri di testo che dovetti leggere c’era: “Sorì San Lorenzo, la nascita di un grande vino” di Edward Steinber. È attraverso questo libro che ho conosciuto la cantina Gaja.
Affascinato dalla bellissima storia raccontata nel libro e dalla descrizione dei meravigliosi paesaggi e vigneti descritti da Steinberg, decisi di inviare il mio curriculum ad Angelo Gaja. Subito non mi rispose. Decisi così di chiamare io in azienda. Mi passarono al telefono direttamente Angelo Gaja, che mi disse “lei cosa fa il primo maggio? È un giorno festivo, però se vuole possiamo incontrarci, il suo curriculum mi interessa”.
Ovviamente accettai subito l’incontro e ci vedemmo in cantina a Barbaresco per un colloquio che durò a lungo; più di quattro ore. Mi fece molte domande, mi chiese di raccontargli la mia passione per il vino; mi raccontò dei suoi molti progetti che stavano nascendo proprio in quegli anni: la nuova proprietà a Montalcino (Pieve Santa Restituta), l’acquisizione del Castello di Barbaresco, l’acquisizione dei vigneti a La Morra (Gromis), il progetto di acquistare e costruire una nuova cantina a Bolgheri (Ca’Marcanda).
Alla fine del colloquio, lo ricordo molto bene, in via amichevole, mi disse che ero pazzo; e che lui andava particolarmente d’accordo con i pazzi. Quindi, mi disse, che mi avrebbe dato una possibilità, che mi avrebbe assunto.
A suo avviso ero pazzo perché desideravo lavorare in Piemonte, che era a più di quattrocento chilometri lontano da casa mia; perché venivo da una terra, Ferrara, che non aveva tradizione vinicola; perché sarei stato disponibile a lasciare la mia famiglia, la mia casa, per trasferirmi a Barbaresco e a lavorare per la loro azienda. Ad Angelo Gaja interessava la mia determinazione, e mi diede una possibilità. Quella che divenne la più importante esperienza professionale della mia vita. Riuscii a trasferirmi a Barbaresco, e iniziare il mio lavoro in Gaja, il primo settembre del 1999 (sono costretto qui a fare una sintesi della mia esperienza di vita e lavorativa in Gaja; se raccontassi tutto non mi basterebbero molte pagine).
Il ruolo che mi diede Angelo Gaja fu quello di suo assistente personale, di suo segretario. Così mi dovetti occupare di molte cose differenti in azienda.
In sintesi però posso dire che, non l’università mi ha formato a livello professionale e umano, bensì l’azienda Gaja. Lì, ho imparato la disciplina, da dedizione al lavoro, il sacrificio per raggiungere l’eccellenza. L’esempio mi veniva dato dai miei titolari Angelo Gaja e Lucia Gaja e dall’enologo Guido Rivella. In quegli anni posso dire che mi sono formato professionalmente, ho imparato a degustare i più grandi vini, anche francesi o californiani o australiani (che Gaja importava attraverso Gaja distribuzione). Lì ho imparato a parlare in pubblico, dato che seguivo le visite in azienda, e arrivavano professionisti e appassionati da tutto il mondo. Lì, ho imparato dall’enologo Guido Rivella a lavorare in cantina, e dall’agronomo a gestire i vigneti.
Sono stati sette anni di lavoro magnifici ed irripetibili. Senza la dura disciplina e l’apprendimento di quegli anni trascorsi in Gaja a Barbaresco, non sarei mai stato in grado di diventare il vignaiolo, il produttore di oggi.
Ma perché decisi di lasciare Gaja nel 2006?
Quando iniziai a parlare con alcuni cari amici che avrei voluto lasciare Gaja, tutti mi dissero che era una scelta sbagliata, irresponsabile. Come dargli torto! In Gaja avevo già tutto. Lavoravo in una cantina leader a livello mondiale, avevo un lavoro sicuro, e i titolari, ed i colleghi, mi volevano bene. Con Angelo e Lucia Gaja, avevo, e posso dire che ancora ho, un rapporto di amicizia vero, di stima reciproca. Di poche parole se vogliamo, ma autentico.
Ebbene nel 2006, a febbraio, dopo alcuni anni di “combattimento spirituale” , decisi di lasciare Gaja.
Mi spinsero le seguenti motivazioni: dovevo provare a tutti i costi di esprimermi in prima persona, con la mia voce, bella o brutta che fosse. Dovevo mettermi in gioco per cercare di crescere ancora, mettendo a frutto i molti insegnamenti che avevo ricevuto a Barbaresco. Dovevo tentare di diventare un vignaiolo io stesso, interpretando il vino e la vigna per come li sentivo.
Lasciando Gaja mi presi dei rischi molto grandi. Lasciai un impiego sicuro, in una grande azienda per andare dove? Sì, dentro di me era tutto chiaro: acquistare una azienda, dei vigneti e poi progettare i miei vini. Ma di concreto nel 2006 quando lasciai il Piemonte, non c’era ancora niente.
A Febbraio del 2006 rientrai a Ferrara, a casa, lasciando la ma piccola casetta di Barbaresco, e incominciai con Maragrazia (mia moglie) a visitare cantine, luoghi, colline e territori, in Romagna. La Romagna, questa splendida terra oggi ancora poco conosciuta, era l’area vitivinicola più importante e prestigiosa che si trovasse più vicina alla mia città di origine, Ferrara, dove vivevo, e dove io potessi pensare di progettare i miei vini.
Impiegammo Mariagrazia e io, circa un anno di ricerche per trovare un’azienda che ci piacesse veramente. Quello che cercavamo era un luogo isolato, con i vigneti, ma soprattutto con molta natura attorno, i boschi, un fiume e poca presenza umana. La nostra azienda la trovammo a Barisighella, sulla strada che porta a Firenze attraverso l’Appennino.
A novembre 2007 Mariagrazia ed io firmammo l’accordo di acquisto dell’ azienda, di quell’azienda che poi avremmo chiamato Fondo San Giuseppe. Il diciotto giugno del 2008 la acquistammo con atto notarile.
Le date non sono mai una coincidenza. Il diciotto giugno del 2008 è nata anche nostra figlia Biancamaria. In quel giorno, la cui notte in sala parto ci aveva regalato la pioggia e poi un cielo illuminato da una meravigliosa luna piena, nacque nostra figlia; e nacque anche Fondo San Giuseppe. Da quel giorno è cambiata la nostra vita, come famiglia, ed è incominciata una nuova avventura professionale molto, molto importante. L’avventura di Fondo San Giuseppe.
vigneti nella sottozona di Valpiana
Sono nato nel 1969 in un piccolo paese in provincia di Ferrara, da una famiglia di agricoltori e fornai. Mio nonno possedeva alcuni terreni in cui, soprattutto, si produceva frutta. Iniziai a trascorrere molto tempo nei campi fin da piccolo, fin dall’età di cinque e sei anni. Mi piaceva moltissimo correre sui campi arati, fra i filari dei frutteti, nella vigna, nei campi di grano e granturco. Anche se in modo inconsapevole, in quegli anni, stava entrando in me, si stava sviluppando, la mia sensibilità verso la Natura. Le campagne negli anni settanta, nei pressi di Ferrara, erano veramente belle, intatte, molto fertili. Si viveva il rapporto con la terra con grande rispetto. I campi, per me, rappresentavano il luogo di lavoro dei miei nonni e dei miei genitori, ma, allo stesso tempo, erano luoghi sconfinati, dove imparare ad osservare la meraviglia dei fiori, degli alberi, degli animali. Luoghi dove imparare a guardare i molti, differenti, colori del cielo, dove imparare a vivere il passaggio delle stagioni.
Quando si trattò di decidere, assieme alla mia famiglia, quale scuola avrei dovuto frequentare per le superiori (scuole medie superiori), la scelta ricadde sull’Istituto per Agrotecnici. Un Istituto professionale di Stato situato appena fuori la città di Ferrara. Furono cinque anni di studio interessanti, dove potei conoscere nel dettaglio tutte le colture che quotidianamente vedevo nell’azienda di famiglia. Studiai la frutticoltura, la viticoltura, le colture estensive come i cereali, l’agronomia. Materie che mi appassionavano. Nel frattempo d’estate lavoravo nei campi, per aiutare la mia famiglia.
Mio nonno paterno aveva una gran passione per la viticoltura e per il vino; tanto che nella nostra azienda agricola, piantò negli anni sessanta un ettaro di vigna. Scelse una varietà locale come il trebbiano, ma piantò anche merlot (più popolare nel veneto che nella nostra Emilia) e poi la Barbera. Sì, proprio la Barbera piemontese, quasi che volesse già farmi entrare in contatto, con molto anticipo, con una delle grandi varietà che avrei incontrato dieci anni dopo in Piemonte, durante la mia prima importante esperienza lavorativa. Di cui dirò più avanti.
All’Istituto per Agrotecnici conseguii il diploma nel 1988, presentando all’esame di maturità, viticoltura ed enologia.
L’anno successivo, quindi nel 1989, mi iscrissi alla Facoltà di Agraria di Bologna. Per me fu un grande orgoglio. Nessuno, nella mia famiglia, prima di me, aveva avuto la fortuna di frequentare l’università. Tutti, mi riferisco a mio padre, a mia madre, agli zii ed ai nonni, avevano dovuto dedicarsi al lavoro, senza poter studiare.
Il corso di laurea in Agraria, quando io mi iscrissi a Bologna, aveva una durata di cinque anni, trentasei esami, infine la tesi. Mi occorsero sei anni e mezzo per concludere l’università, ma alla fine ottenni un eccellente risultato, in quanto mi laureai con il massimo dei voti e la lode.
L’università di Bologna mi conferì il diploma di laurea in dottore in Scienze Agrarie. Questo avvenne nel 1996.
Dato che il voto di laurea fu buono, decisi di fare domanda per accedere ad alcune borse di studio, sempre all’Università di Bologna. Ne vinsi due, e scelsi quella offertami dal Cnr di Bologna (Cnr: Consiglio Nazionale delle Ricerche). Lì, trascorsi lunghi mesi nei laboratori, prevalentemente al microscopio. Il laboratorio era in una stanza interrata, la cui finestra principale lasciava intravvedere il marciapiede esterno dell’edificio. Mi stavo occupando di patologia vegetale, di micosi, di batteri, ero sempre rinchiuso in quel piccolo laboratorio.
Fu proprio nei mesi in cui lavorai al Cnr che iniziai a pormi alcune domande sul mio futuro. Era veramente la vita del ricercatore quella che volevo fare? Era la carriere universitaria, quella per cui forse a cinquant’anni avrei potuto diventare un ricercatore di ruolo, quella che mi affascinava? Era una vita chiusa in un laboratorio, quella per me?
Le risposte arrivarono presto e con convinzione: certamente No. Se dovevo rendere la mia vita bella, audace, interessante, allora avrei dovuto seguire il mio istinto, il mio sogno; ovvero mettere a frutto gli studi di agronomo e lavorare in una grande azienda vinicola, in una grande cantina, ovunque essa si trovasse.
Nel 1997, consegui il diploma di sommelier dall’AIS (Associazione Italiana dei Sommelier). Fra i libri di testo che dovetti leggere c’era: “Sorì San Lorenzo, la nascita di un grande vino” di Edward Steinber. È attraverso questo libro che ho conosciuto la cantina Gaja.
Affascinato dalla bellissima storia raccontata nel libro e dalla descrizione dei meravigliosi paesaggi e vigneti descritti da Steinberg, decisi di inviare il mio curriculum ad Angelo Gaja. Subito non mi rispose. Decisi così di chiamare io in azienda. Mi passarono al telefono direttamente Angelo Gaja, che mi disse “lei cosa fa il primo maggio? È un giorno festivo, però se vuole possiamo incontrarci, il suo curriculum mi interessa”.
Ovviamente accettai subito l’incontro e ci vedemmo in cantina a Barbaresco per un colloquio che durò a lungo; più di quattro ore. Mi fece molte domande, mi chiese di raccontargli la mia passione per il vino; mi raccontò dei suoi molti progetti che stavano nascendo proprio in quegli anni: la nuova proprietà a Montalcino (Pieve Santa Restituta), l’acquisizione del Castello di Barbaresco, l’acquisizione dei vigneti a La Morra (Gromis), il progetto di acquistare e costruire una nuova cantina a Bolgheri (Ca’Marcanda).
Alla fine del colloquio, lo ricordo molto bene, in via amichevole, mi disse che ero pazzo; e che lui andava particolarmente d’accordo con i pazzi. Quindi, mi disse, che mi avrebbe dato una possibilità, che mi avrebbe assunto.
A suo avviso ero pazzo perché desideravo lavorare in Piemonte, che era a più di quattrocento chilometri lontano da casa mia; perché venivo da una terra, Ferrara, che non aveva tradizione vinicola; perché sarei stato disponibile a lasciare la mia famiglia, la mia casa, per trasferirmi a Barbaresco e a lavorare per la loro azienda. Ad Angelo Gaja interessava la mia determinazione, e mi diede una possibilità. Quella che divenne la più importante esperienza professionale della mia vita. Riuscii a trasferirmi a Barbaresco, e iniziare il mio lavoro in Gaja, il primo settembre del 1999 (sono costretto qui a fare una sintesi della mia esperienza di vita e lavorativa in Gaja; se raccontassi tutto non mi basterebbero molte pagine).
Il ruolo che mi diede Angelo Gaja fu quello di suo assistente personale, di suo segretario. Così mi dovetti occupare di molte cose differenti in azienda.
In sintesi però posso dire che, non l’università mi ha formato a livello professionale e umano, bensì l’azienda Gaja. Lì, ho imparato la disciplina, da dedizione al lavoro, il sacrificio per raggiungere l’eccellenza. L’esempio mi veniva dato dai miei titolari Angelo Gaja e Lucia Gaja e dall’enologo Guido Rivella. In quegli anni posso dire che mi sono formato professionalmente, ho imparato a degustare i più grandi vini, anche francesi o californiani o australiani (che Gaja importava attraverso Gaja distribuzione). Lì ho imparato a parlare in pubblico, dato che seguivo le visite in azienda, e arrivavano professionisti e appassionati da tutto il mondo. Lì, ho imparato dall’enologo Guido Rivella a lavorare in cantina, e dall’agronomo a gestire i vigneti.
Sono stati sette anni di lavoro magnifici ed irripetibili. Senza la dura disciplina e l’apprendimento di quegli anni trascorsi in Gaja a Barbaresco, non sarei mai stato in grado di diventare il vignaiolo, il produttore di oggi.
Ma perché decisi di lasciare Gaja nel 2006?
Quando iniziai a parlare con alcuni cari amici che avrei voluto lasciare Gaja, tutti mi dissero che era una scelta sbagliata, irresponsabile. Come dargli torto! In Gaja avevo già tutto. Lavoravo in una cantina leader a livello mondiale, avevo un lavoro sicuro, e i titolari, ed i colleghi, mi volevano bene. Con Angelo e Lucia Gaja, avevo, e posso dire che ancora ho, un rapporto di amicizia vero, di stima reciproca. Di poche parole se vogliamo, ma autentico.
Ebbene nel 2006, a febbraio, dopo alcuni anni di “combattimento spirituale” , decisi di lasciare Gaja.
Mi spinsero le seguenti motivazioni: dovevo provare a tutti i costi di esprimermi in prima persona, con la mia voce, bella o brutta che fosse. Dovevo mettermi in gioco per cercare di crescere ancora, mettendo a frutto i molti insegnamenti che avevo ricevuto a Barbaresco. Dovevo tentare di diventare un vignaiolo io stesso, interpretando il vino e la vigna per come li sentivo.
Lasciando Gaja mi presi dei rischi molto grandi. Lasciai un impiego sicuro, in una grande azienda per andare dove? Sì, dentro di me era tutto chiaro: acquistare una azienda, dei vigneti e poi progettare i miei vini. Ma di concreto nel 2006 quando lasciai il Piemonte, non c’era ancora niente.
A Febbraio del 2006 rientrai a Ferrara, a casa, lasciando la ma piccola casetta di Barbaresco, e incominciai con Maragrazia (mia moglie) a visitare cantine, luoghi, colline e territori, in Romagna. La Romagna, questa splendida terra oggi ancora poco conosciuta, era l’area vitivinicola più importante e prestigiosa che si trovasse più vicina alla mia città di origine, Ferrara, dove vivevo, e dove io potessi pensare di progettare i miei vini.
Impiegammo Mariagrazia e io, circa un anno di ricerche per trovare un’azienda che ci piacesse veramente. Quello che cercavamo era un luogo isolato, con i vigneti, ma soprattutto con molta natura attorno, i boschi, un fiume e poca presenza umana. La nostra azienda la trovammo a Barisighella, sulla strada che porta a Firenze attraverso l’Appennino.
A novembre 2007 Mariagrazia ed io firmammo l’accordo di acquisto dell’ azienda, di quell’azienda che poi avremmo chiamato Fondo San Giuseppe. Il diciotto giugno del 2008 la acquistammo con atto notarile.
Le date non sono mai una coincidenza. Il diciotto giugno del 2008 è nata anche nostra figlia Biancamaria. In quel giorno, la cui notte in sala parto ci aveva regalato la pioggia e poi un cielo illuminato da una meravigliosa luna piena, nacque nostra figlia; e nacque anche Fondo San Giuseppe. Da quel giorno è cambiata la nostra vita, come famiglia, ed è incominciata una nuova avventura professionale molto, molto importante: l’avventura di Fondo San Giuseppe.